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Il fiorente commercio della seta a Bologna

di Giancarlo Roversi

L'entrata di Palazzo Zagnoni in via Castiglione. Foto C. Fanti L'arte della seta ha costituito fino agli ultimi anni del '700 uno dei capisaldi dell'economia bolognese. I prodotti serici creati sotto le Due Torri, grazie alla loro raffinatezza e alla loro indiscussa qualità, erano assai ricercati e alimentarono una forte esportazione sia in Italia che in Europa. La produzione e il commercio di seterie - e in primo luogo dei celebri «veli» di Bologna furono il volano della fortuna economica di non poche famiglie. Fra esse va annoverata quella degli Zagnoni che, fra il sec. XVII e il XVIII, entrarono in possesso delle case già degli Ariosti in via Castiglione che ampliarono con l'inglobamento degli stabili limitrofi e, nel 1756-64 trasformarono in un palazzo unitario con una decorosa facciata su progetto di Francesco Tadolini (l'edificio è quello che accoglie oggi il «Circolo della Caccia»).
Nel giro di due o tre generazioni gli Zagnoni avevano compiuto un prodigioso balzo in avanti nella scala sociale, concentrando nelle loro mani un formidabile patrimonio. Basti pensare che alla fine del '500 Carlo Zagnoni era ancora un modesto sarto, mentre i suoi discendenti, dopo che si erano insediati nel 1666 in via Castiglione, disponevano già di un ingente peculio e non lesinavano sforzi per conferire sempre maggior lustro alla loro immagine esterna fino a conseguire, verso la metà del '700, l'agognata aggregazione al ceto aristocratico. E punto di partenza della fortuna della famiglia è rappresentato dalla fabbricazione e dal commercio dei prodotti serici, in un settore in cui gli Zagnoni si segnalarono fra i maggiori protagonisti. In una perizia del 1736 sono descritti due «filatogli» che la famiglia possedeva rispettivamente in via Azzogardino, all'angolo con l'attuale via Castellaccio, e «dietro Reno sotto la Carità». Il primo comprendeva «sei ruote ad acqua con tutti gl'altri ordegni necessari»; il secondo era invece azionato da sette ruote idrauliche. Altri documenti posteriori di qualche anno ricordano anche un «filatoglio Fongarini» e quello «Fantetti-Cattani», probabilmente dati in gestione a terzi. Il secondo, detto anche («delle botteghe nuove», si trovava nella via della «Molinella» sotto la parrocchia di S. Giorgio in Poggiale e aveva diritto di utilizzare l'acqua del canale Cavaticcio.
Il luogo dell'antico negozio della famiglia Zagnoni, accanto alla chiesa. Foto F. Fogacci Il negozio per lo smercio dei prodotti di seta si trovava invece in via Clavature, nella casa situata a ponente della chiesa di S. Maria della Vita e non, come lascia intendere il Guidicini, dalla parte opposta della strada. Lo attesta in modo preciso un documento del 1761 che lo dice posto sotto la parrocchia di S. Matteo degli Accarisi e confinante «a levante, ponente e tramontana con lo spedale di S. Maria della Vita e a ostro (cioè a sud) con la strada delle Chiavature». Il documento offre anche un'accurata descrizione dell'ambiente sulla quale vale la pena di indugiare qualche istante perché da essa si riflette l'inedita immagine di un'attività economica che in passato costituì uno dei capisaldi dell'economia bolognese. Al negozio si accedeva da una porta laterale «nella quale si ascende tre gradini che entra nella loggietta dove, per una bussola, si passa in un camerone per commodo de' ministri e maestranze». Il locale, arredato con «armarii, banche, balanzone, scranine ed altri arnesi», riceveva luce da tre finestre sulla strada e comunicava con un «camerino oscuro» usato come sgabuzzino dai lavoranti. In mezzo allo stanzone si trovava una piccola scala che conduceva in un altro grande ambiente pavimentato in legno, interamente circondato di «banche, arcibanchi, tavole, tutto per uso de' ministri scritturali», ossia di coloro che tenevano le registrazioni contabili.
Lo illuminavano tre finestre che si affacciavano su un cortile da cui traeva luce anche un'altra stanza adiacente, «che serve per i congressi», vale a dire le riunioni, ammobiliata con tavola, sedie e un armadio «foderato di ferro», probabilmente un forziere o cassaforte. Tramite una scala si accedeva a un camerone superiore, rivolto con le finestre verso via Clavature, «che serve per asciugare gli orsogli». Accanto si apriva un piccolo locale, destinato ad accogliere i cascami di seta.
Il negozio disponeva pure di altre camere al piano terreno dalla parte del cortile e comunicanti con la via Pescherie. Erano arredate anch'esse con tavole, panche a grandi bilance. Gli Zagnoni avevano pure preso in affitto dall'attiguo ospedale di S. Maria della Vita una camera e un bugigattolo per destinarli all'asciugatura dell'orsoglio e a deposito di carbonella. Alla fine del '700, dopo il definitivo trasferimento a Roma del marchese Giuseppe Zagnoni, ultimo esponente della famiglia, l'amministrazione del negozio e dell'intero patrimonio venne demandata a un drappello di fidati collaboratori. Alla loro testa era il dottor Paolo Antonio Cella con le funzioni di mandatario. Lo coadiuvavano il notaio Zenobio Teodori, il dottor Angelo Pistocchi, l'agente Giuseppe Mazzoli, il computista Giuseppe Pietti, il perito Pompeo Monti, Pietro Mazzoni, Lodovico Sassoli, Lorenzo Tonelli, fattore della tenuta di Prada, Angelo Michele Monteventi, fattore di quella di Tavernelle, Paolo Ramponi, «institore» del negozio di veli di seta. A quest'ultimo subentrò Pietro Gadi alla fine del 1788, quando già l'industria serica bolognese era in fase di depressione. Per tale motivo alcuni anni più tardi, nel febbraio del 1794, lo Zagnoni dette ordine da Roma al pubblico perito Ercole Bassani, lo stesso a cui aveva affidato la costruzione delle scuderie, di stendere un progetto per convertire il «filatoglio» di via Azzogardino in «molino da rizza», cioè in un macinatoio di corna e unghie bovine per ricavarne una poltiglia usata un tempo per conciliare i campi, specialmente quelli destinati alla coltivazione della canapa.
Contemporaneamente il marchese stipulava una convenzione con Francesco Mignani che si impegnava ad acquistare l'opificio «ed erigervi a tutte sue spese una macchina in tutto perfetta ad uso di rizza». Le trattative però andarono per le lunghe e sollevarono qualche anno più tardi le preoccupazioni dei nuovi governanti napoleonici. Nel 1797 il segretario del Dipartimento del Reno scrisse infatti a Paolo Cella, che come si è detto curava a Bologna gli interessi dello Zagnoni, per invitarlo a non dar luogo alla vendita del fílatoglio perché il compratore era persona «da non sperarsi che voglia continuarlo come tale». Nella lettera veniva lamentata anche la demolizione di molti altri filatogli da seta «riducendo gli edifici ad altro uso mentre essi servono ad una mercatura che ha sempre giovato all'arricchimento di questa comune». L'appello del governo non rimase inascoltato: due imprenditori bolognesi, Mauro Landi e Angelo Putti, si offrirono infatti di acquistarlo e di mantenerne inalterata l'attività. La loro proposta dovette però non avere seguito in quanto, da alcuni documenti dell'inizio dell'800, si apprende che il filatoglio era stato trasformato in mulino «da rizza» condotto da Luigi Mignani, figlio di Francesco dietro pagamento di un canone di 360 lire annue. Sempre al 1797 risale una petizione del «cittadino» Zagnoni al governo della Repubblica Cispadana per ottenere una congrua riduzione di un'imposizione contributiva ritenuta troppo esosa e comunque sproporzionata al suo effettivo reddito. Egli sosteneva infatti che le rendite del suo patrimonio erano in gran parte assorbite dagli «annui vistosi assegni dovuti alla moglie e a una sorella ex-monaca e nelle provvisioni di ministri e salariati. L'avanzo - prosegue lo Zagnoni - serve a sussidiare la mia fabbrica da veli che, ad onta delle critiche vicende di questa negoziazione e delle vistose perdite incontrate, è stata costantemente alimentata col sagrifizio di considerabile porzione del patrimonio di familia al solo oggetto di non porre nell'ultima desolazione più centinaia di famiglie e tanti ministri impiegati nel negozio e nella concia de' veli».
«Ne ho giammai - scrive ancora il marchese - avventurato il pubblico erario a sovvenzioni che il governo conobbe di pubblico interesse di fare a molti negozianti da veli, dai quali per le vicende di questa negoziazione, è disperata la restituzione delle ricevute sovvenzioni».
«E questa - conclude lo Zagnoni - la critica mia situazione: esausta di numerario la cassa familiare, il depauperare la cassa del negozio mi porrebbe nella necessità di abbandonare all'ultima indigenza più centinaia di famiglie ed il loro disimpegno potrebbe apportare le più funeste conseguenze, delle quali non potrei essere addebitato al momento che ve ne prevengo.» Il commiato della lettera inoltrata tramite il mandatario Paolo Cella, contiene, una chiara minaccia, anche se espressa in toni garbati: quella di sospendere l'attività commerciale e di mettere sul lastrico i dipendenti. Una simile insidia non poteva non trovare orecchie sensibili nei politici, anche in quelli della Cispadana, ai quali non rimase che dare credito alle ragioni dello Zagnoni, riconoscendogli una forte riduzione della sua quota contributiva che venne abbassata da 80 a sole 30 azioni del debito pubblico. Forse anche per dare una continuità al commercio della seta, che aveva contribuito ad arricchire la sua famiglia, prima di spegnersi Giuseppe Zagnoni cedette al dottor Luigi Piana, figlio del suo agente Carlo - «che vive da molto tempo separato dal padre e che trattasi come capo di famiglia, lo che è pubblico e notorio» - lo stabile di via Clavature dove aveva sede il negozio con tutti i «capitali vivi e morti» nonché la «concia», il filatoglio in via Fontanina con tutte le macchine e gli attrezzi, per un corrispettivo di 145000 lire. Il compratore era autorizzato a mantenere per i primi quattro anni il vecchio marchio commerciale «Cesare Zagnoni e fratelli». La concessione era estesa ai due anni successivi a condizione che «le manifatture de' veli siano della stessa perfezione che di presente si fabbricano». Del cambio di gestione dovevano essere immediatamente avvisati tutti i «corrispondenti tanto nazionali che esteri della ditta». Ben presto il prestigioso nome degli Zagnoni e della loro fabbrica di seterie fu avvolto dall'oblio: sic transit gloria mundi!

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