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La coltivazione del baco da seta a Bologna

di Anna Magli

Prima di parlare della produzione e della commercializzazione dei bozzoli o folicelli da seta, conviene spendere due parole sull'affascinante processo di trasformazione da baco a farfalla. Per rendere meglio l'idea approfitteremo del «Nuovo Dizionario Scientifico» di Giovanni Francesco Pivati (1786) il quale, alla voce «Baco da seta», fornisce questa esauriente spiegazione: Questo verme, chiamato anche flugello o verme da seta, allorché è arrivato alla giusta grandezza, viene dalla grossezza di una penna di cigno, e di 2 once di lunghezza. Chiamasi semenza le uova.. le semenze di Spagna, Bologna e di Bergamo sono le migliori, quando non se ne potessero avere di quelle di Sicilia... Quando nasce il feto, grosso come una semenza di papavero, tiene colore grigio ed a misura si ingrandisce e si allunga, diviene sempre più chiaro di colore e dopo quattro differenti mutazioni, nelle quali si cangia di pelle, viene al suo colore naturale, che è bianchiccio un po' tirante al giallo. Consiste il suo nutrimento in foglie di gelso bianco, che gli si somministrano più volte al giorno, finché lavora nel suo bozzolo. Bachi da seta sul letto di foglie di gelso Egli è di estrema delicatezza, e i cattivi odori, lo strepito grande, principalmente quello dei tuoni, l'umidità e il fiato delle persone che si avvicinano, sono bastevoli a farlo ammalare o morire. Sei settimane dopo il nascimento comincia a lavorare il suo bozzolo... allorché sono rinchiusi l'opra è finita, si mutano di natura e diventano farfalle. Per moltiplicarli ed averne la semenza si scelgono i pezzi più belli, tanti di maschi che di femmine, cosa che si riconosce dalla forma essendo quello del maschio meno liscio e puntito nelle due estremità e quello della femmina all'incontro puntito da una parte e rotondo dalla altra... -. Dopo questa bizzarra esposizione forse qualcuno ricorderà che fino a non troppo tempo fa, 30 o 40 anni al massimo, anche nelle nostre campagne la coltivazione del baco da seta era ancora diffusa; molte persone forse ricorderanno di stanze adibite a questa attività dove i bachi appena raccolti, venivano posti su erba secca e distesi nelle «arlén» (arelle) che erano grandi ripiani di canna sovrapposti, e qui nutriti con foglie di gelso fino alla loro maturità.

I bozzoli avvolti dal filo di seta Ma la coltivazione del baco da seta a Bologna ha origini remotissime e la sua storia si intreccia nel tempo a quella dell'industria serica condividendone la nascita, lo splendore e la decadenza. Già nel 1200 il gelso bolognese era molto conosciuto e la sua coltivazione, incoraggiata e protetta, prosperava in tutta la provincia. Nel 1305 Pier Crescenzi scrive che la pianta in questione era denominata gelso nero (morus nigra) mentre alla fine dello stesso secolo si diffuse, sembra dalla Sicilia, anche la coltivazione del più pregiato gelso bianco (morus alba) che si impose presto «per maggior prontezza onde crescono e per la più gradita bontà della foglia» tanto che, nel 1500 il gelso nero era praticamente scomparso.

Tornando ai bachi, lo storico Masini scrive che «nel 1289 i bozzoli o folicelli si vendevano all'incanto nella piazza Maggiore a chi più offriva». Quasi sicuramente si tratta di Piazza Maggiore antica che, oltre all'attuale Piazza dei Celestini, comprendeva le immediate vicinanze fra cui il tratto di Via D'Azeglio che la fiancheggia. Se questa ubicazione corrispondesse al vero, possiamo dire che in seguito questo mercato non si spostò di molto dato che lo ritroviamo in Corte Galluzzi, nell'attuale Piazza Galvani e in casi eccezionali nella piazza della Chiesa di San Francesco.
Giuseppe Maria Mitelli 'Pavaglione di Bologna, Fiera della seta', 1664 Ma ben presto le autorità comunali stabilirono, circa questo mercato, delle regole precise: nel 1449 per esempio, si prescrisse che le contrattazioni dovevano aver luogo nei locali della Fabbriceria invece che nel solito capannone di legno. Ma nel 1522 il tetto del capannone, come spesso accadeva a quei tempi, andò bruciato e una nuova testimonianza del 1583 ci parla del mercato dei bozzoli come «quella parte di stancia, botteghe e strade che sono dietro la Chiesa di San Pétronio dove, da giugno a luglio, si fa mercato dei folicelli e perché si copre detta strada con una tela a guisa di paviglione per riparare dal sole compratori e venditori, di il nome di Paviglione».
L'ultima locazione di questo mercato resta, negli anni 1920/30, davanti alla Chiesa dei Servi, lungo il portico e nella vicina Piazza Aldrovandi. Le produzioni iniziali non ci sono note ma sappiano che dal 1568 se ne tenne un accorto conteggio e che nel 1687 la quantità dei bozzoli prodotti raggiunse i 4.700 quintali. Alla produzione locale si aggiunse poi la seta di importazione; sempre il Masini riporta che «nel magazzeno della dogana si vendevano ogni anno 170 mila libbre di seta forestiera, la quale si lavorava nella città ... ». Tutto questo non poteva naturalmente che influire negativamente sulla produzione locale che si trovò a competere con sete che potevano vantare sia un'ottima qualità che prezzi molto inferiori a quelli allora praticati. Per ridurre i disagi e le difficoltà che si erano naturalmente venuti a creare con l'andar degli anni, i rappresentanti dell'arte della seta e della città chiesero ed ottennero, dal sovrano e dal pontefice, una serie di provvedimenti atti ad alzare le gabelle per i prodotti stranieri e facilitare lo smercio di quelli locali.

All'inizio del secolo XIX, nell'estate del 1807, il governo napoleonico concesse una sovvenzione di mezzo milione di lire bolognesi ai fabbricanti di seta che erano sopravvissuti alla lunga guerra contro il monopolio della produzione straniera: 8 aziende in tutto. Evidentemente le forme di protezionismo attivate non erano state abbastanza forti da salvaguardare la categoria, il cui lento ma irreversibile declino era già segnato da tempo. Negli ultimi anni del 1800 e nei primi del 1900 i gelsi scomparvero gradatamente dai filari e dagli orti dentro le mura e, quei pochi rimasti, ebbero solo il compito di alleviare la calura delle torride estati cittadine. La produzione rimase, quasi a livello amatoriale, delegata alle campagne ma, con l'avvento dell'industrializzazione, anche queste «Fabbricerie» scomparvero inesorabilmente lasciando solo, nella memoria di pochi, il ricordo di tante «arlén» nella stanza più secca della casa.

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