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I filatoi idraulici a Bologna

di Anna Magli

Quando si parla di Arte della Seta, che per molti anni fece di Bologna una delle città piú qualificate in questo mercato, non si può non ricordare la storia dei suoi filatoi o torcitoi ad acqua i quali, alimentati dai canali di Savena e di Reno, diedero vita ad una delle più antiche tradizioni della città. L' inventore di questo sofisticato macchinario sembra sia stato non un bolognese bensì un mercante di Lucca il quale, forte di una tradizione già consolidata della sua terra, costruì il primo filatoio fuori Porta Castiglione, sul canale di Savena nel 1272. Questo pioniere, tale Bonaventura di Barga, aveva capito che sfruttando il salto che il canale faceva (e fa tuttora) per passare sotto il fossato delle mura ed entrare in città, salto già parzialmente sfruttato per alimentare un preesistente mulino, si sarebbe potuto alimentare anche un filatoio che richiedeva una minima potenza idrica.

L'ubicazione dei primi filatoi bolognesi ci viene invece data dallo storico Alidosi che ne colloca, già nel 1359, uno in Via De' Molini da Galla (attuale Via Castellata) e un altro in via Fiaccacollo (ora Via Rialto). In breve tempo il filatoio non fu più esclusiva della famiglia lucchese e la sua presenza in città si intensificò fino a riempire già alla fine del 1300 le sponde di tutti i canali e fossati della città e dando quindi lavoro a molte centinaia di persone. Anche lo storico Masini, nel suo «Bologna Perlustrata» ci informa che «... nella città erano 330 tra Filatogli e Torcitogli e gli operai che vi lavorano erano tra homini, donne, fanciulli e citelle circa 30 mille». L'elevato numero di manodopera ricordato da Masini è spiegabile considerando che la lavorazione della seta comprendeva, rispettivamente a monte e a valle della filatura, oltre alla tintura, la trattura e la tessitura.

Il 1800 segnò la rapida decadenza e la fine dell'industria della seta a Bologna: alla fine del 1700 infatti rimanevano ancora solo 72 opifici. Questa drastica riduzione era da attribuirsi principalmente alla forte concorrenza dei veli francesi i quali, molto più leggeri e meno costosi di quelli italiani, contribuirono largamente alla chiusura del mercato serico italiano verso il levante. Tuttavia anche le massicce importazioni di sete cinesi e bengalesi, offerte a prezzi bassissimi, infierirono su un mercato ormai agonizzante che nel 1833/34 ebbe il tracollo definitivo. Nel 1861 infatti si contavano a Bologna solo 24 filande e 105 caldiere, mentre nel 1876, cioè dopo 15 anni dall'Unità d'Italia le filande rimaste erano 6 di cui due a Imola. Dopo altri dodici anni a Bologna rimaneva una sola filanda e una ne contava Imola.

Ritornando ai nostri filatoi dei tempi migliori sembra che ci sia stata da parte degli scrittori e illustratori delle cose locali, una vera e propria congiura del silenzio circa la descrizione della macchina filatoio: cosa, del resto, facilmente spiegabile dato che esso fu sempre considerato fin dall'inizio una specie di segreto di famiglia. Già nel 1300, infatti, quando la famiglia lucchese installò il prototipo a Bologna, questo sembrò diventare un vero monopolio cittadino, molto severamente coperto e tutelato da leggi rigidissime; fra l'altro si ha l'impressione che questo segreto legalmente e collettivamente protetto sia stato molto più efficace di un qualsiasi brevetto. Lo storico Guidicini annota nelle sue cronache che «l'Arte dei filatorieri aveva molto stentato a essere riconosciuta ufficialmente perché fu sempre guardata con occhio geloso dal governo, affinché il mestiere non fosse portato altrove».

Un bando legatizio del 1510 nomina pene severissime e minacciava la scomunica ad un gruppo di filatoglieri per «aver portato l'arte altrove». Ma ciò che di questo bando risulta più interessante è la motivazione di tanto rigore «... il mestiere dei telami da sete è unico e peculiare dono concesso da Dio a questa città, il quale è tanto più da custodire, quanto più si conosce essere utile e fruttuoso ... ». Ma tutte le minacce annunciate non furono sufficientemente efficienti se già nel 1538 un setaiolo e un falegname furono «appiccati per un piede al Palazzo del Podestà per aver portato in altre città l'arte del filatoglio». La fuga di tecnici e notizie si fece ancor più grave verso la metà del secolo quando un certo Ugolino Rangoni riuscì impunemente a portare il filatoio nel Ducato di Modena.

Date queste premesse non ci si può aspettare certo che i libri e gli archivi bolognesi abbondino nella descrizione del filatoio; ciononostante sempre l'Alidosi scrive che i filatoi o incanatoi «sono macchine grandi, le quali, mosse daun piccolo canaletto di Reno, fanno ciascuna di loro molta prestezza filiare, torcere ed addoppiare quattromila fili di seta, operando in un istante quel che farebbero quattromila filatrici».

Tuttavia una migliore conoscenza del meccanismo e del funzionamento dei filatoi la si può ottenere dal trattato «Novo Theatro di machine ed edifici ... » dell'architetto Vittorio Zonea, pubblicato a Padova nel 1607. Lo Zonea era un affermato ingeniere idraulico e meccanico che dedicò all'argomento due tavole di figure e quattro tavole di testo e dall'entusiasmo della sua descrizione possiamo intuire come gli fosse ben poco propenso alle arti militari quando piuttosto a complicate e laboriose macchine utensili di cui il nostro filatoio è degno rappresentante.

Dalle pagine del suo trattato apprendiamo che «... bellissima, anzi meravigliosa è la fabbrica del filatoio ad acqua, percioché si vede in essa tanti movimenti di ruote, fusi, rotelle e altri sorti di legno per traverso, per lungo e per diagonale, che l'occhio vi si smarrisce dentro, a pensarvi come l'ingeno humano habbia potuto capire tanta varietà di cose, di tanti movimenti contrari moss da una sol ruota che ha il moto innanimato ... ». Segue qui una lunga e laboriosa descrizione facente riferimento alle due tavole in cui l'illustrazione del filatoio è stata divisa. E per concludere Zonca ci informa del prezzo di tale meraviglia; un filatoio di tutto rispetto, che abbia quindi almeno 432 fusi costa ben 1800 ducati ossia, tanto per rendere l'idea, una bella borsa contenente oltre due chili e mezzo di monete d'oro.

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